Ormai è un mantra. Per fare impresa innovativa bisogna imparare a fallire. Insegnamento probabilmente corretto, che però lascia intatto anche un altro modo di trasformare un fallimento in un’opportunità: evitare che un’azienda chiuda del tutto, salvarne le parti sane e conservare i posti di lavoro.
È la strada che ha percorso Davide Lolli, 43 anni, ex consulente finanziario che nel 2013 ha deciso di cambiare mestiere e di diventare imprenditore creando un’impresa proprio dalle ceneri di una startup nata nel 2006 e “andata male”. Ha dato vita a Sumus, un’azienda specializzata nella produzione di sacchi e sacchetti per la raccolta differenziata realizzati con rifiuti.
Esperto di ristrutturazioni di società in crisi, Lolli aveva intravisto le potenzialità di un’azienda che stava portando i libri in tribunale nonostante il prodotto di punta, il sacchetto in materiale riciclato per la raccolta dell’umido, avesse avuto buoni riscontri sul mercato. “L’idea del prodotto è nata a fine 2009. Stava andando bene, solo che chi gestiva l’impresa all’epoca ha fatto qualche operazione un po’ spericolata”, racconta l’amministratore delegato di Sumus. “Così, quando ho visto che la società sarebbe fallita, ho pensato di salvarla e ho rilevato il ramo d’azienda che includeva il nostro prodotto principale: ho fatto il piano, organizzato la parte finanziaria e contrattuale e ricreato la struttura aziendale sulla falsariga dell’azienda che poi è fallita”.
Dal 2013 a oggi, Sumus, che ha la propria sede produttiva in provincia di Padova e quella amministrativa a Milano, ha ampliato la propria gamma di prodotti passando da 3 a oltre 20 e ha incrementato i propri ricavi ogni anno: 1 milione di euro nel 2013 (150 mila di ebitda), 2,7 milioni nel 2014 (300 mila ebitda) e 3,5 milioni di fatturato previsionale nel 2015. I dipendenti “diretti” erano 5 e ora sono 7. L’indotto, tra linee di produzione, magazzino, trasporti e altro comprende 25-30 persone, mentre nel 2013 erano 8-10, e i collaboratori esterni, agenti di commercio e altri, sono passati da 3 a oltre 20 e andranno oltre quota 30, secondo le stime della società, entro il 2016.
“Trattandosi di sacchetti per la raccolta differenziata, i principali clienti sono le società municipalizzate di raccolta dei rifiuti: sono loro a distribuirli all’utente finale”, dice Lolli. “Stiamo però entrando nella gdo: abbiamo chiuso accordi con Carrefour, Coop e piccole catene locali, per cui contiamo, entro un triennio, che il 30% della distribuzione passi da questo canale”. Oltre all’Italia, l’azienda ha cominciato a esportare in Francia e sta per espandersi in Svizzera e Austria.
Sumus investe in ricerca e sviluppo circa il 10% del fatturato e ora mira ad avere come nuovo prodotto di punta, oltre al sacchetto per l’umido,
Aquasumus, un sacchetto per la raccolta della carta fatto in carta riciclata e reso impermeabile grazie all’aggiunta di resine naturali. “Con questo sistema, alternativo alla bioplastica come tutti i nostri prodotti, il cassonetto condominiale e i sacchi per la carta possono essere sostituiti da un prodotto in carta riciclata totalmente ecosostenibile: permette l’aumento delle percentuali di raccolta differenziata in quanto la carta, a differenza della plastica, non è un’impurità da separare dal rifiuto quando arriva al centro di trattamento, motiva di più l’utente finale nel fare bene la differenziata e consente una semplificazione nel trattamento dei rifiuti, con vantaggi anche in termini di costo: per intenderci, la Tari pagata dai cittadini in questo modo diventa più leggera”.
Pur investendo molto in innovazione, Sumus non è una startup innovativa iscritta alla sezione speciale del Registro delle imprese. “Stiamo pensando anche a questa possibilità”, spiega l’amministratore delegato, “ma la nostra attenzione è soprattutto sulle certificazioni ambientali, visto che ci proponiamo come società che realizza prodotti usando i rifiuti per raccogliere i rifiuti, e sui brevetti: non a caso, stiamo studiando a fondo la normativa sul patent box, che al momento ci sembra ancora farraginosa e poco utilizzabile ma ci auguriamo che possa migliorare velocemente”
Stando ai risultati dei primi anni, per Lolli il passaggio da consulente a imprenditore è valso la pena. “Avere un’azienda che va bene e aver salvato i posti di lavoro della startup fallita – tre dipendenti diretti più due collaboratori – è una grande soddisfazione, il mio dividendo principale. Ma mi rendo conto che in Italia fare impresa è veramente difficile: tra normative per la partecipazione alle gare, certificazioni e bolli ci sono adempimenti burocratici assurdi. In più, la tassazione è altissima. In uno stato più efficiente e meno asfissiante sarebbe molto più facile a tutti i livelli. Per fortuna sono uno che combatte”.