La storia

Karalit e quei finanziamenti arrivati dopo anni «perché in Italia pochi investitori capiscono di scienza»

Il fundraising della Pmi innovativa sarda fondata dall’ingegnere 57enne Marco Mulas è stato «come scalare l’Everest», dice il fondatore. «Da una parte, come ricercatore, scontavo la poca esperienza ma dall’altra è stata dura trovare esperti del nostro campo, la fluidodinamica computazionale, tra i VC»

Pubblicato il 01 Nov 2015

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Marco Mulas, fondatore di Karalit

Come trovare finanziamenti per la propria startup se chi ha i soldi non ha le competenze per capire il settore scientifico da cui si parte per fare impresa? La domanda se la sono posti più o meno tutti gli scienziati e i ricercatori che hanno dato vita ad aziende e spinoff legati a brevetti dall’alto valore scientifico-tecnologico.

Tra questi c’è stato anche Marco Mulas, ingegnere sardo di 57 anni che nel 2007 ha fondato Karalit, azienda che sviluppa software innovativi di CFD (fluidodinamica computazionale), ovvero sistemi che in base a tecniche matematiche misurano l’impatto che l’aria e acqua hanno su determinati manufatti, tra cui le costruzioni e le autovetture.

Karalit, la cui denominazione deriva dall’unione tra Karalis (antico nome greco di Cagliari) e “it” che fa pensare all’information technology, è nata come spinoff del centro di ricerche CRS4 di Pula, in Sardegna, è da poco stata inserita nell’elenco delle Pmi innovative del Registro delle imprese e dà lavoro nel complesso a una quindicina di persone. «Ma a breve cresceremo anche in termini di occupazione», assicura Mulas a EconomyUp.

Il modo in cui la società è cresciuta e ha trovato finanziamenti sul mercato dei capitali di rischio è sintomatico di alcuni limiti che sconta l’ecosistema italiano dell’innovazione tanto da parte dei neo-imprenditori che da quello degli investitori.

La vicenda comincia con Mulas, ricercatore sui generis non troppo interessato alla pubblicazione di paper scientifici per fare carriera, che dopo una quindicina di anni di ricerca si stanca della sua attività e comincia a pensare che il frutto dei suoi studi possa essere trasferito a chi per mestiere deve analizzare l’interazione tra fluidi e oggetti.

«Mi piaceva pensare che sul mercato, intorno al 2007, non ci fossero sistemi in grado di fare questo tipo di analisi con la rapidità e la semplicità a cui eravamo arrivati noi: il nostro ultimo prodotto era in grado di innovare profondamente una branca scientifica, quella della fluidodinamica computazionale, che era rimasta sostanzialmente immutata fin dagli anni ’80-‘90», racconta il fondatore di Karalit. «In più, il parco tecnologico regionale in cui lavoravo non aveva ancora prodotto nessuno spinoff in circa quindici anni di attività e in quell’epoca vennero introdotti degli incentivi per favorirne la creazione».

Le condizioni per far partire una startup ci sono. Così Mulas la crea e si mette alla ricerca di fondi per farla andare avanti. «Per due anni, tra il 2008 e il 2010, è stato come scalare l’Everest», ricorda. «Ho contattato via mail tutte le società di venture capital: nessuno riusciva a comprendere cosa fosse Karalit e perché fosse innovativa. Erano tutti esperti di IT: mancavano quasi totalmente gli ingegneri e gli scienziati. Una persona importante di questo ambiente, anche dopo che riuscimmo a ottenere un investimento, mi confidò: le dico la verità, all’epoca non ne capivo nulla».

Ma anche dall’altra parte, nonostante gli sforzi, improvvisarsi imprenditore non era semplice. «Ero un ricercatore che non sapeva nulla di business plan: il parco mi ha aiutato ma stavano appena iniziando a coltivare la parte imprenditoriale. Per arrivare a un piano di business decente ci ho impiegato un anno e mezzo. Business angel e investitori iniziavano a interessarsi ma mi dicevano: l’idea è buona ma moltiplichi i numeri del business plan almeno per dieci sennò è difficile che qualcuno di noi ci possa mettere dei soldi su».

Nel 2009 Vertis Venture, che nel 2012 avrebbe finanziato Karalit, incontra Mulas facendosi assistere da un ingegnere aerospaziale che ha le competenze per riconoscere la bontà del prodotto. L’interesse c’è, ma l’investimento sarebbe arrivato appunto solo tre anni dopo.

Nel frattempo, Karalit ottiene un piccolo finanziamento da Sardegna Ricerche, che fungeva da incubatore, per sopravvivere. Quando lo spettro del fallimento non è più un’ipotesi così remota, nella primavera del 2010, la società ottiene un finanziamento da due investitori privati, stimolati anche da un collega di Mulas che aveva fondato una startup in un settore affine e aveva segnalato loro la storia di Karalit. A loro volta, gli investitori se ne trascinano dietro altri per un importo complessivo, a fine anno, di circa un milione di euro.

«Uso le risorse per trovare dei manager. Era necessario: ricordo che durante una presentazione a Padova ci fu chi mi disse: fintanto che non trova il suo manager e la sua resta una one man company, non la finanzierà nessuno».

Poi, nel 2012, Mulas riscrive all’ingegnere aerospaziale convocato da Vertis due anni prima e gli chiede di nuovo un incontro: con un business plan che era stato configurato proprio insieme a Vertis, i nuovi soci e i primi finanziamenti, il fondo di venture capital con sede a Napoli decide di aggiungersi mettendo una cifra che non necessitava una lunga procedura di due diligence: 350 mila euro, che arrivano nel settembre 2012.

Con il capitale in più, Karalit assume nuove personale, mette a punto il prodotto e investe in marketing. «Siamo arrivati a un punto in cui, per esempio, se si deve fare una simulazione in galleria del vento per la nuova ferrari su strada, il nostro sistema impiega 15 minuti per preparare il modello e 4 o 5 ore di calcolo. Mentre normalmente servivano un paio di giorni per allestire il modello e diverse ore per effettuare il calcolo: facciamo risparmiare tempo e soldi».

Adesso, con Mulas diventato più esperto come imprenditore e con i venture capital più competenti riguardo alle tecnologie legate alla fluidodinamica computazionale, muoversi sul mercato è più facile. Tanto che l’obiettivo della società sul mercato globale è di ritagliarsi una nicchia dell’1-2%. E i vantaggi che derivano dall’essere Pmi innovativa potrebbero essere di aiuto.

Ma finché l’imprenditoria non sarà materia di studio nelle scuole e la scienza non sarà il pane quotidiano anche degli uomini della finanza, a odissee come quella di Karalit dovremo abituarci.

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Maurizio Di Lucchio

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