Il governo italiano dovrebbe chiedere all’Unione europea di tenere fuori dalla Legge di Stabilità gli investimenti per l’innovazione, così come accade in Germania. Lo ha detto a EconomyUp Mariana Mazzucato, docente di Economia dell’Innovazione allo Spru (Science and Technology Policy Research Centre) dell’University of Sussex nel Regno Unito, sottolineando la storica arretratezza dell’Italia su questo fronte: “Da 20 anni non si fa innovazione”. Non solo: “La legislazione sulle startup non ha senso perché punta su realtà piccole, ma il Paese è già composto di piccole e medie imprese, quello che serve è farle crescere”. Anche il Piano Industria 4.0 preparato dal ministro Carlo Calenda per adeguare le nostre imprese alla quarta rivoluzione industriale non la entusiasma: “Mette in gioco solo pochi pennies, pochi spiccioli”. Così come non guarda con entusiasmo alla nomina di Diego Piacentini a Commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale. “Non deve essere Amazon a dirci come innovare la PA”.
EconomyUp ha incontrato Mazzucato nell’ambito del World Business Forum, dove l’economista ha affrontato e sviluppato argomenti in parte già esposti nel libro Lo Stato innovatore uscito in Italia nel 2014. Già dalla prima edizione inglese il testo aveva suscitato un vivace dibattito nel mondo anglosassone per la sua tesi di fondo: smontare il mito che l’impresa privata sia la sola forza innovativa e lo Stato sia invece una forza inerziale, troppo pesante per fungere da motore dinamico dell’economia. Mazzucato ha sempre sottolineato che, nelle economie più avanzate, è lo Stato a farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie, facendo l’esempio della Silicon Valley, che è potuta nascere proprio grazie agli investimenti statali (quasi tutta la ricerca scientifica alla base di iPod, iPhone e Ipad è stata realizzata in Europa e negli Usa da scienziati e ingegneri che usufruivano di fondi pubblici).
Al World Business Forum Mariana Mazzucato ha invitato a ripensare il dibattito sull’austerità e il rapporto tra deficit pubblici, debiti nazionali e crescita, ha sollecitato a costruire ecosistemi di innovazione che generino una crescita “intelligente” e ha suggerito di puntare su Internet, nanotecnologie, biotecnologie, energie pulite. Poi, intervistata da EconomyUp, ha affrontato con atteggiamento schietto e molto diretto il tema Italia: “Da 20 anni non si fa innovazione – ha detto – e gli investimenti nel settore sono ridicoli”. Una soluzione però potrebbe esserci: “Chiedere all’Unione europea di tenere fuori dal Patto di Stabilità gli investimenti in innovazione, e non solo le spese straordinarie per migranti ed emergenza terremoti, come ha già chiesto di recente il premier Matteo Renzi”.
Sarebbe fattibile?
Penso che si dovrebbe fare. Come Renzi anche il presidente francese François Hollande, dopo gli attentati di Parigi, ha fatto presente all’Unione europea che sarebbero stati necessari investimenti per combattere il terrorismo. È triste che provvedimenti di questo tipo si pensino solo per i casi di emergenza, come appunto il terrorismo, o anche il terremoto o le migrazioni. Invece io ritengo che, nell’ambito del Patto di Stabilità, non dovrebbero essere conteggiati quegli investimenti che, nonostante abbiano un costo nel breve periodo, nel lungo periodo portano crescita e fanno abbassare il rapporto debito/Pil. In Europa c’era una certa convergenza di vedute su questa proposta, per esempio si era ipotizzato di tenere fuori dal Patto di Stabilità il settore R&D, ma ancora non se ne è fatto nulla. È incredibile come, su alcune questioni, riescano a mettersi d’accordo subito e non su altre che sono molto più serie. Ma la cosa ancora più interessante è che in Germania alcuni investimenti in innovazione non vengono contati nel Patto di Stabilità per via del Piano Marshall, progetto di ricostruzione dei Paesi europei devastati dalla Seconda guerra mondiale messo in atto dagli Stati Uniti nel 1947, che ha dato vita alla grande banca pubblica KfW, Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, Istituto di credito per la ricostruzione. (È ritenuta da molti una Federal Reserve tedesca, sorta di superbanca pubblica che non esita a concedere prestiti in appoggio al sistema-Paese Germania, ndr). Anche se la KfW usa soldi pubblici per finanziare l’innovazione, non vengono ritenuti finanziamenti governativi ma fondi della banca stessa. Trovo ipocrita che una delle nazioni che più investe riesca in qualche modo a “nascondere” i suoi investimenti. Ma il problema non è solo il Patto di Stabilità. Ce n’è uno ancora più grande.
Quale?
Le leggi sull’Antitrust. Spesso i fondi pubblici dedicati all’innovazione, se sono troppo grandi o troppo attivi, vengono giudicati anti-concorrenziali. Negli Stati Uniti hanno trovato una scappatoia: è in vigore una legge in base alla quale non vengono conteggiati tutti quegli investimenti fatti a scopi di sicurezza dal Dipartimento della Difesa, così il loro operato non può essere giudicato anti-competitivo. È un problema in altri Paesi dove questi investimenti vengono considerati aiuti di Stato. Ma l’aiuto statale – quello vero, strategico e mission-oriented – è assolutamente essenziale per l’innovazione. Se ogni volta viene giudicato un intralcio alla libera concorrenza non se ne fa di niente. E infatti l’Europa, in questo momento, è statica, non sta crescendo.
E l’Italia? Per esempio il governo italiano ha messo in atto una politica governativa a supporto delle startup innovative. Cosa ne pensa?
Le startup non sono l’obiettivo, chi se ne frega delle startup: il fulcro è l’ecosistema. In Italia abbiamo, nella stragrande maggioranza dei casi, imprese di piccole dimensioni e non è una cosa bella. Piccolo è brutto. Bisognerebbe trovare il mondo di aiutare veramente le poche startup che hanno potenziale, perché ce ne sono poche, ma questo è naturale. Tante falliscono, anche in Inghilterra solo il 6% delle startup diventa qualcosa di più strutturato, ed è già una buona percentuale. Quel tipo di startup ha bisogno di quel genere di appoggio statale che c’è stato in Silicon Valley e che c’è in Israele, definita non a caso la Startup Nation. Per esempio in Israele c’è Yozma, fondo di venture capital a capitale pubblico per investimenti strategici nel lungo periodo, cosa che non c’è in Italia. I pochi fondi che hanno cominciato adesso a lavorare in territorio italiano investono una quantità di soldi abbastanza ridicola.
Conosce qualche startup italiana?
Voglio precisare chenon ho niente contro le startup, semmai contro l’“ossessione sulle startup”. Detto questo, ho tenuto alcuni talks per le startup di Tim #WCap, l’acceleratore di Telecom Italia, e attraverso loro ho conosciuto alcuni startupper. Sinceramente non è il mio lavoro dire se una startup può funzionare oppure no. È invece il mio lavoro parlare di come possiamo riuscire a creare ecosistemi di innovazione veri, non solo usare la parola ecosistema così per fare, capire la profondità e il respiro che deve avere l’attività pubblica in questo contesto e come strutturare questi investimenti intorno a questioni importanti per il Paese. Penso alla questione demografica, a quella climatica, alla disoccupazione giovanile, all’assistenza sociale, all’invecchiamento della popolazione. Dobbiamo far emergere i problemi per poi definire una visione e scegliere quale direzione far prendere al Paese. Questo richiede non solo un enorme investimento pubblico, ma anche investimenti privati. Il fatto è che, in Italia, il privato non spende molto in Ricerca e Sviluppo. Il periodo più interessante è stato quando nelle aree del Centro-Nord, per esempio a Reggio Emilia, Bologna e dintorni, c’era una relazione simbiotica tra strutture regionali e programmi di formazione. E adesso dove sono queste realtà?
Però abbiamo in cantiere il Piano Industria 4.0. Dopo tanti anni si torna a fare politica industriale, non crede?
Tutti in questo momento stanno parlando di Industria 4.0 e quarta rivoluzione industriale. Il problema è cosa c’è veramente dietro. Per il piano sulla Buona Scuola l’investimento netto non è cresciuto di un euro, ma il governo si è semplicemente limitato a spostare un po’ di soldi da una parte all’altra. Io spero e mi auguro che non si faccia lo stesso con il Piano Industria 4.0 e che l’investimento netto del pubblico sia realmente in grado di far crescere quello privato. Per adesso le cifre che sto sentendo sono pennies, cioè pochissimi soldi. Però Renzi ha ragione e sarebbe bellissimo se, invece di parlare solo del terremoto, andasse alla Ue dicendo: “Per fare il nostro Piano Industria 4.0, per avere un Rinascimento innovativo in Italia, bisogna poter spendere, e con queste limitazioni imposte dal Patto di Stabilità europeo non ci riusciamo”.
A proposito di Renzi, il premier ha scelto Diego Piacentini di Amazon per una PA più digitale. La ritiene una scelta efficace?
No, perché non si tratta di dare in outsourcing il settore pubblico ad Amazon, ma bisogna investire all’interno del settore pubblico. Per esempio in Inghilterra hanno creato un’agenzia che si chiama Government Digital Service ed è estremamente innovativa: la gente preferisce andare a lavorare lì invece di collaborare con le startup. All’inizio il governo aveva affidato la gestione del sito web a una famosa IT company, che poi però ha fatto cose che al governo non servivano, perché non aveva una visione pubblica e sociale. Il valore sociale deve essere un obiettivo e sì, certo, si può lavorare con Amazon e con le altre Internet company, però se non riusciamo a investire nella capacità interne e a diventare learning organizations non riusciremo mai ad attirare i giovani più brillanti e convincerli a lavorare per l’amministrazione pubblica. Se deve essere una Amazon o una Google ad aiutare la PA italiana, i giovani brillanti preferiranno farsi assumere direttamente lì. Perché devo lavorare per il governo se posso lavorare per Amazon che poi va a insegnare al governo come fare? Innovare si può, ma partendo da noi.