Scenari economici

Per crescere serve più Stato, lo dice l’OCSE

Il vento sta cambiando, dopo anni di quel liberismo che ha prodotto la crisi. Lo conferma un rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico che segnala la necessità di politiche attive per l’inclusione imprenditoriale. Soprattutto nei Paesi come l’Italia

Pubblicato il 18 Mar 2015

ripresa-crescita-130802155831

Fabio Sdogati, docente del Politecnico di Milano

Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia 2001, ha definito gli anni novanta ‘ruggenti’, termine con il quale indicava un periodo in cui la liberalizzazione dei mercati procedeva a ritmo forsennato e di pari passo, ovviamente, procedeva il ritirarsi dello Sato in quanto supremo ente regolatore delle atittività produttive e degli scambi. Mentre l’enfasi del libro è sul settore finanziario, le ‘liberalizzazioni’ investirono, come si ricorderà, tutti i settori produttivi (I ruggenti anni novanta, Einaudi 2004). Il risultato, per chi abbia occhi per vedere, è visibile a tutti: la crisi prodotta da quelle deregolamentazioni e svelatasi nel 2007 ha prodotto nel nostro Paese circa 3 milioni e mezzo di disoccupati, la perdita del 25% della capacità produttiva industirale, una caduta del reddito reale pro capite di poco meno del 10%, un aumento enorme del numero di concittadini che vivono sotto il livello di povertà, un’emigrazione giovanile che non conoscevamo da decenni.

Mano a mano che la crisi mette in ginocchio attività produttive e famiglie, comincia a farsi sentire, timidamente ma crescentemente, la voce di chi ritiene che in assenza dello Stato una ripresa vera non ci sarà, un’uscita da questa stagnazione non potrà realizzarsi, l’esperienza della crescita non verrà vissuta da almeno una generazione, le opportunità languiranno, il ‘sopravvivere’ diventerà pian piano il nostro modo di essere. Ovviamente, i principi al governo (18 governi dell’UEM su 19) e i loro chierici (leggi: consulenti) continuano imperterriti sulla strada dell’austerità e del liberismo sfrenato, e rifuggono dall’intervenire in questa situazione drammatica se non per aggravarla fin che possono (esempio? L’obiettivo del bilancio in pareggio).

Se questo è il quadro, allora abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie possibili per attivare processi di crescita del reddito, dell’occupazione, della qualità della vita, dello svecchiamento tecnologico delle imprese esistenti. Dobbiamo mobilitare giovani, donne, disoccupati, immigrati, tutti coloro che possano e vogliano avviare attività produttive adatte a rinnovare il tessuto produttivo del Paese rendendolo competitivo sul piano internazionale, moderno, attraente per i giovanissimi che escono dalle nostre scuole (buone) e università (buona). Ma, c’è un ma: che tutto ciò possa essere avvenire (su di una scala statisticamente apprezzabile) in assenza di politiche per l’inclusione imprenditoriale è impossibile. Si, politiche, cioè intervento attivo dello Stato. Chi lo dice? Lo dice l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), cioè l’organizzazione dei paesi ricchi. Meraviglia: ma non è forse l’OCSE uno dei bastioni di quel liberismo che ha generato questa crisi!? Non è forse l’OCSE quella organizzazione il cui segretario generale ebbe a dire, in una intervista al Wall Street Journal, che occorre fare sacrifici e che “il dolore comincia a pagare”!?

Ebbene, proprio il fatto che la predica venga da tale pulpito ci da l’idea di quanto stia cambiando il vento. Il rapporto OCSE The Missing Entrepreneurs 2014, ha un sottotitolo importante: Policies for Inclusive Entrepreneurship in Europe. Policies. Non sussidi, ovviamente, che non saremo noi non-liberisti a chiedere. Politiche. Iniziative legislative, certo, ma soprattutto programmi di formazione, orientamento, accompagnamento, condivisione del rischio, politiche insomma. Inclusive.

La seconda ragione per la quale questo rapporto OCSE è importante sta nelle comparazioni che offre tra i Paesi europei. Il tasso di imprenditori nascenti, definiti come la percentuale della popolazione che dichiara di essere nella fase di avvio attivo di una attività propria, è nel nostro paese il più basso tra tutti i 24 paesi europei in cui la rilevazione è stata condotta nel periodo 2008-2012. E ciò tanto per le donne che per gli uomini. Come non bastasse, il rapporto rivela che il nostro è il Paese in cui la percentuale di imprenditori nelle prime fasi delle attività imprenditoriali che si aspettano di creare almeno sei posti di lavoro nei prossimi cinque anni è, di nuovo, la più bassa in Europa. E ciò tanto per le donne che per gli uomini.

Drammatico. Abbiamo bisogno di politiche per l’imprenditorialità. Inclusiva. Perché lo Stato conta.

* Fabio Sdogati è docente di Economia Politica al Politecnico di Milano

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati

Articolo 1 di 3